E’ strano come sia sufficiente percorrere 50 kilometri perché i punti di vista cambino in modo radicale. E così capita che degustando Vernaccia di San Gimignano a Pisa, presso il Park Hotel California, in occasione di una bella serata organizzata dalla Fisar locale alla presenza del direttore del Consorzio di tutela della Denominazione Stefano Campatelli, ci si renda conto in pochi minuti di come, agli occhi di un pisano, diventi una sorta di affascinante oggetto misterioso quello che per te è da sempre “vino quotidiano”. Le 5 milioni di bottiglie di VSG prodotte ogni anno faticano infatti a raggiungere le enoteche della zona: la metà vola all’estero, un altro buon 30% accoglie i 3,5 milioni di turisti che ogni anno visitano la “Manhattan del Medioevo”, e il resto stenta così a coprire la Toscana tutta, figuriamoci l’intera penisola.
Un vino “fiero” - questa la definizione emersa in sala che più mi ha colpito - che pare rivolgersi all’esterno quasi altezzoso: quelle sono le sue caratteristiche, e non farà granché per farvi cambiare idea se non dovesse piacervi. Questa immagine che la Vernaccia restituisce di sé a chi la conosce di meno (e non solo) è al tempo stesso pregio e limite: perché se ci racconta, da un lato, di produttori che stanno sempre più abbandonando le facili scorciatoie dello chardonnay e del sauvignon – usati talvolta per addomesticare il vitigno sangimignanese in accordo con quanto previsto dal disciplinare – è vero anche che certe caratteristiche finiscono spesso con l’incidere negativamente sull’appeal che il nettare prodotto all’ombra delle torri riesce ad esercitare sull’esterno, e si sa che alla fine il consumatore resta pur sempre il sovrano.
E se è lo stesso direttore del Consorzio ad incontrare - ahinoi – una qualche difficoltà nel ribattere a chi sostiene di non “emozionarsi” bevendo Vernaccia, ci proverò io – per una volta un po’ presuntuosamente - con queste brevi note di degustazione. Già, perché la Vernaccia non è una signora dal trucco volgare e dal profumo invasivo, ma una donna un po’ timida e schiva, capace di rivelare solo ai più pazienti uno spessore talvolta assente in vini dai profumi più immediati ed intensamente semplici. Non sono molti, in Italia, i vini bianchi che mostrano la versatilità nell’abbinamento propria della Vernaccia, dovuta in particolare alla sua “robustezza” e sapidità, che la rendono ideale anche per essere impiegata direttamente nella cottura di certe pietanze (ad esempio il coniglio), così come non sono molti i bianchi che mostrano una tale capacità di invecchiamento (tanto che la denominazione è una delle poche a prevedere la tipologia Riserva); la qualità media del prodotto è inoltre invidiabile, grazie anche alla resa in vigna che il disciplinare limita ai 9.000 kg per ettaro. Ecco così che, alla luce di un’analisi che si sforzi di essere complessiva, quella iniziale timidezza di profumi finisce con l’assumere connotati decisamente diversi.
Cinque i vini in degustazione nel corso della serata:
Az. Agricola Casa alle Vacche, “I Macchioni” 2012: l’unica bottiglia della serata (stando almeno al naso e alle dichiarazioni ufficiali) ad avere in uvaggio anche vitigni diversi dalla VSG. L’olfatto, con la sua banana e la sua foglia di pomodoro, si distingue infatti nettamente dal resto della batteria, raccontando un possibile impiego di sauvignon e chardonnay dai risultati estroversi ma non particolarmente eleganti. In bocca si presenta di buon corpo e freschezza, morbida e sapida, con leggero retrogusto di mandorla amara.
Società Agricola Fontaleoni, “Casanuova” 2012: inizialmente un sentore di straccio bagnato opprime l’olfatto, ma bastano pochi secondi affinché lo spiacevole effetto svanisca, dando spazio ad agrumi e acacia. Vino di bella sapidità e mineralità dall’aspetto un po’ severo e dall' avvolgenza quasi tannica.
Il Colombaio di Santa Chiara, “Campo della Pieve” 2012: questo “cru” di Vernaccia “picca e punge”, per dirla alla Michelangelo: ottenuto dalle uve coltivate in prossimità della Pieve situata nella piccola frazione di San Donato, mostra una tagliente vena acida ed una sapidità particolarmente intensa, con la lingua che avverte quasi una sensazione di anidride carbonica; la sapidità è tale che per godere al meglio di questa bottiglia sembra necessario un abbinamento per contrasto con piatti di buona grassezza. Al naso dominano una nota minerale e tocchi eleganti di erbe aromatiche e fiori bianchi. Anche quest’anno l’intraprendente azienda è stata premiata con i 3 bicchieri del Gambero Rosso (per la versione Riserva), e se ne intuisce il perché.
Il Palagione, Riserva “Ori” 2012: inizialmente il legno è un tantino invasivo, ma poi l’olfatto si distende, con la vaniglia e le spezie dolci che restano piacevolmente in primo piano. Di morbida avvolgenza in bocca, ha buon equilibrio. Vino pronto ma che ha probabilmente ancora margini di crescita nei prossimi mesi.
Riserva Vernaccia Teruzzi e Puthod 2010: colore giallo dorato, è sicuramente il vino più complesso della serata: anche senza il ricorso al legno, lo spettro olfattivo è particolarmente variegato, spaziando da un dolce ananas a idrocarburi e sensazioni minerali. La sensazione in bocca è quella di una secca dolcezza, con una decisa nota ammandorlata. Davvero un bell’esempio delle potenzialità che la Vernaccia può esprimere col passare degli anni.