martedì 23 dicembre 2014

Masterchef, opportunità o farsa?

“Non è mica cucina quella”, ha sentenziato Cipriani – uno dei più noti ristoratori italiani - riferendosi alle “prodezze” del trio di Masterchef Barbieri, Bastianich, Cracco. La questione è di quelle particolarmente dibattute, con chef e ristoratori professionisti che sempre più spesso cercano di rivendicare e difendere il proprio ruolo nei confronti di chi quotidianamente lo spettacolarizza in tv e di chi – in qualità di fruitore di tale spettacolo - si arroga il diritto di criticare tutto e tutti sentendosi un esperto enogastronomico solo perché segue il canale del Gambero Rosso alla tv ogni domenica.

La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Nell’epoca dei coocking show e dei social network in cui tutto è accessibile a tutti è molto facile smarrire il senso del rispetto nei confronti dell’altrui professionalità: ci bastano due righe lette in rete su vattelappesca.it o l’ultimo refrain di Barbieri (do you know mappazzone?) per contestare (spesso incivilmente) l’operato dello chef e del sommelier di turno, che diventano con effetto immediato degli incapaci, inaffidabili cretini, indipendentemente dagli studi fatti, dall’esperienza maturata e dalle fatiche profferte. E l’eco di certe critiche si espande in fretta: basta scorrere le pagine di Trip Advisor per rendersi conto di come la penisola sia cosparsa di “dotti" critici che con un solo click sentenziano spietatamente su tutto quanto passi sotto le proprie fauci. Il fenomeno riguarda peraltro svariati settori: dal medico al bancario passando per l’idraulico, un po’ tutti sono sotto la lente di ingrandimento della grande comunità virtuale.

Se certi atteggiamenti sono senza dubbio deprecabili tuttavia, il successo e la diffusione di quello che potremmo definire “modello Masterchef” può avere anche effetti positivi per il settore enogastronomico e non solo.  Mai come in questi ultimi anni cibo e vino sono stati sulla bocca di tutti, e il boom di iscritti ad Istituti alberghieri e Facoltà di Agraria è lì a testimoniarlo. E se alcuni rimarranno delusi nello scoprire, con l’avanzare dell’età, che non è la carriera di Cracco ad attenderli, bensì un ben più modesto impiego nella pizzeria all’angolo, molti di più saranno coloro che grazie a un input del genere torneranno finalmente ad imparare un “mestiere”, merce sempre più rara in questa nostra declinante Italia, e a gettare le basi per lavorare in un settore che per il nostro paese resta pur sempre strategico.

Sia pur in mezzo a molti eccessi inoltre, lo sviluppo di uno spirito critico “di massa” va nella direzione di quel consumo consapevole a cui tutti sostengono di voler tendere, ma che solo passando attraverso qualche distorsione ed esagerazione potrà esplicare tutto il proprio dirompente effetto. La posizione di Cipriani finisce così col sembrare quella di chi, sentendo vacillare  il piedistallo, si arrocca a difesa delle proprie posizioni pre-costituite senza accettare il confronto con un mondo che, inevitabilmente e per fortuna, sta andando avanti coinvolgendo sempre più persone a costi sempre più abbordabili.

Nelle parole di Cipriani sembra infine annidarsi il più classico dei ribaltamenti della realtà: il ristoratore parla di “imposizioni”, riferendosi al modello dei talent show, ma così facendo – oltre ad ignorare il fatto che nessuno è obbligato ad abbonarsi a sky né tantomeno a seguire Bastianich - guarda al consumatore come ad una sorta di minus habens, incapace di distinguere autonomamente fra ciò che merita e ciò che non merita, con la pretesa - lui sì - di imporre a tutti il proprio concetto di “vera” cucina.

E nell’attesa che anche i sommelier abbiano il loro Cracco, buon pressure test a tutti.

martedì 16 dicembre 2014

Siamo tutti "internazionali"

Bere i vini dell’azienda libanese Chateau Musar mette in poche ore dinanzi a molte delle contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca, costringendo chi beve a cambiare prospettiva. Nell’era della riscossa dei vitigni “autoctoni”, che specie in Italia stanno vivendo una sorta di età dell’oro, suona infatti strano bere vini prodotti là dove – kilometro più kilometro meno - l’intera storia del vino ha avuto inizio, vicino al Caucaso. E’ proprio da qui infatti che – grazie ai Fenici - le prime piantine di vitis vinifera hanno preso il largo per giungere fino alle coste della nostra penisola, e se ci sforziamo di risalire alle origini del nettare che allieta oggi le nostre tavole, ecco che d’improvviso tutti i nostri vitigni diventano “internazionali”, perlomeno rispetto a quella genesi lontana nel tempo e nello spazio.

Il protezionismo mascherato di nobili propositi che ammanta alcune delle nostre produzioni viene così prontamente smascherato: se gli antichi avessero ragionato come fanno oggi molti di noi, e non si fossero aperti alle novità provenienti da altri mondi e culture, pronti a coglierne i frutti, oggi racconteremmo probabilmente un’altra storia. E la spocchiosa ritrosia con cui nel 2014 molti di noi guardano alle varietà nate oltreconfine fa quasi tenerezza, nel mentre si assaporano le sette bottiglie in degustazione.

Ecco di seguito alcune note sulle due piccole verticali condotte da Francesco Villa. Il bianco è a base di Obaideh e Merwah, il rosso vede invece presenti in uvaggio Cabernet Sauvignon, Cinsault e Carignano.

CHATEAU MUSAR WHITE 1995: fra i bianchi è quello che ha la maggiore eleganza e finezza al naso, fra complessi sentori di fico, miele, albicocche, burro, gesso, erbe, vaniglia e note balsamiche e di ossidazione. In bocca è di buon corpo, e nonostante il peso degli anni ancora fresco. Sicuramente, nella mini-verticale di White, è questa la bottiglia in cui durezze e morbidezze risultano maggiormente fuse ed integrate fra loro. Da provare con un petto di anatra ai fichi.  

CHATEAU MUSAR WHITE 2000: al naso dominano note di caramello ed un’affumicatura che comportano una piccola perdita di eleganza, oltre a sentori di zenzero e zafferano; in bocca ha un pronunciato retrogusto di miele amaro e lascia quasi un’idea di vinsanto per la notevole ossidazione che si percepisce.

CHATEAU MUSAR WHITE 2003: al naso è il più minerale fra i bianchi, con note di idrocarburo che quasi “rieslingheggiano”, si percepiscono inoltre note di frutta secca, tabacco, miele e anche in questo caso la caratteristica ossidazione. In bocca il vino è fresco, ma l’acidità non riesce a ripulire del tutto la bocca da una sottile patina di grasso che avvolge il palato.

 CHATEAU MUSAR RED 2007 : bottiglia difettata, tappo!

CHATEAU MUSAR RED 2004 : il più in evidenza fra i rossi, una piccola nota animale si fa sentire in prima battuta al naso, ma lascia subito spazio a frutta nera e rossa mature, un tocco di peperone, fiori, rosmarino e spezie dolci, che si aprono con una eleganza degna di nota. In bocca il tannino è ancora vigoroso, ed il vino deve forse essere atteso ancora qualche tempo per poter esprimere il meglio di sé. I vini di Cahteau Musar sono fatti del resto per durare nei decenni, come testimoniano le annate tuttora in vendita. Già adesso ne berresti comunque un secchio, tant’è che a fine serata i bicchieri risultano inesorabilmente vuoti.

CHATEAU MUSAR RED 2000: i patiti del sentore di sotto-sella di cavallo sono in estasi, per gli altri si tratta invece di una interessantissima lezione sul famigerato brettanomyces. La bocca è più integrata rispetto alla 2004, ma anche in retrolfattiva i sentori animali e floreali risultano particolarmente invasivi. La bottiglia tuttavia è probabilmente di quelle da far respirare, ché dopo un’ora nel bicchiere fa capolino una interessante nota balsamica. 

CHATEAU MUSAR RED 1997: il naso è sulla falsariga della 2000. Cuoio, sentori animali e cimiteriali risultano tuttavia un po’ meno invasivamente fastidiosi. Anche qui, come nelle altre bottiglie del lotto, i classici sentori vegetali del Cabernet faticano ad emergere, forse a causa del clima particolarmente caldo del Libano che ne ostacola lo sviluppo. Interessante la bocca con un tannino levigato ed una buona freschezza.